In questa campagna mezzo coltivata e mezzo no, da gente che non ne ha più voglia e comunque solo per profitto, la fauna selvatica approfitta e esce dalla clandestinità. Non sto parlando dei fagiani che le associazioni venatorie mollano a marzo per spararli a settembre, e sono polli variopinti che ti fissano d’in mezzo a un campo, pieni di sconcerto che le gabbie dell’allevamento si siano così tanto dilatate. Parlo di altre specie di volucres che compaiono nei nostri cieli e sui nostri prati.
Dopo anni di cornacchie ai lati della provinciale, gazze bianconere sui pratini ben rasati, e fra gli alberi dei giardini il frullio colorato delle micidiali ghiandaie; anni in cui il massimo dell’esotico, però in collina, era un’upupa o eccezionalmente un picchio verde, ora d’improvviso, mentre guidi, sei sorpresa da qualcosa di strano su un cavo della luce o del telefono, qualcosa che non torna nelle proporzioni. Quell’uccello lassù è troppo grosso per essere, com’è, relativamente lontano. E poi no, nessun errore: è grosso, seduto raccolto sul cavo o sul palo, solenne, un carattere potente nella coda tozza.
Sempre più spesso ti capita di vederli, questi falchi o girifalchi, che si sostengono in un punto immobile sbattendo furiosamente le ali, la coda sventagliata appena flessa; e piombano giù come sassi, come bestie fulminate e morte, nella verticale della gravità.
Il loro rapporto con la terra si esaurisce nell’afferrare la preda, possono fregarsene della rancorosa malignità dei campi. Ma che dire dei poveri uccelli di terra, i trampolieri che stanno sui prati, nell’umido della guazza in mancanza di acquitrini, solitari ma non sperduti, sdegnosi? Ce n’è uno che vedevo spesso, uno grande, bianco, un airone credo, ma sembrava più massiccio per il collo che teneva ripiegato. Visibilissimo di lontano sul verde dell’erba, visibilissimo e sparabilissimo dal primo cretino che volesse esercitarsi. Amava gli spazi relativamente vasti, riparava sui versanti nascosti delle colline. Spero che non sia morto.
E poi è comparso lui, su una fetta triangolare di prato fra la strada e la ferrovia, uno di quei ritagli di terra che non si sa cosa ci crescerà, se granturco bruciato o franca sterpaglia, con qualche immondizia sparsa lungo il fosso e odore chimico di concime. Lì era l’airone cinerino, un essere mai visto, da favola, di un grigio tendente all’indaco, un’unica linea di un pennello giapponese, diritta dal becco levato al collo alle zampe; e un’altra linea nello stesso tono ma più scura, più interna, dalla commissura del becco all’occhio e intorno all’occhio come in una pittura egizia; e giù, lungo il collo.
Era lì, su un brutto ritaglio di prato fra la strada e la ferrovia dalle parti di San Perso. Ma dove avrà, mi chiedo, la sua casa.
Un bellissimo racconto! Anche a me capita di soffermarmi ad osservare gli uccelli e rimango affascinata dai loro movimenti in cielo, quando si muovono a stormo con improvvise virate, asce e discese… mi viene sempre in mente la canzone “Uccelli” di Battiato…. una sinfonia del volo…. Ciao, buona giornata. Pina
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Elena ha la capacità di descrivere ogni cosa in un modo delizioso e nello stesso tempo ricercato 🙂
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Signore, siete molto gentili e vi ringrazio. Una buona serata a entrambe!
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