Letizia Muratori, Animali domestici, Adelphi, euro 18
In un articolo uscito su Internazionale, Carlo Mazza Galanti si stupisce che “tra gli autori considerati di punta nell’attuale panorama letterario italiano raramente si nomin[i] Letizia Muratori”. Loda i sette romanzi apparsi finora, “tutti di ottimo livello, in certi casi dei piccoli capolavori”, e lo “stile proprio e riconoscibile”, il “mondo da raccontare” dell’autrice. A proposito dell’ultima opera, Animali domestici, dice Mazza Galanti: “[Vi] si percepisce un investimento particolare, un tentativo da parte della scrittrice di oltrepassare la sua misura naturale, sia in termini quantitativi (i suoi romanzi precedenti non superavano quasi mai le 150 pagine) sia qualitativi”.
E qui, secondo me, sta il primo problema. Dubito che chi legge Animali domestici abbia l’impressione di stare leggendo un romanzo – con tutta la libertà di interpretazione che l’etichetta ultimamente comporta. L’impressione, a libro finito, è piuttosto di avere letto quattro racconti (tanti sono i capitoli), vagamente collegati dallo stesso personaggio narrante che in alcuni ha un ruolo centrale, in altri piuttosto periferico; quattro racconti più quattro pagine finali in cui l’autrice prova a tirare le fila e a indicare retrospettivamente al lettore la presenza di un filo rosso che avrebbe dovuto seguire (l’emancipazione della narratrice dalla cattività di animale domestico).
Il primo capitolo, Che gioia mi dai, ci mostra la narratrice alle prese con Edi Sereni, padre dell’amica d’infanzia Chiara e in qualche modo anch’egli amico di famiglia, faccendiere della cultura e altro, vecchio marpione vagamente pedofilo, impotente più sì che no ma esperto elargitore del “trattamento”: cerimonia di non meglio precisate (e di questo ringraziamo l’autrice) manipolazioni erotiche in grado di portare la protagonista a scollinare oltre il “mostro che è in lei”, cioè l’indifferenza che molto velocemente la guadagna rispetto al lato erotico delle relazioni sentimentali.
L’aspetto più interessante di questo primo capitolo è senz’altro lo stile, quello che Mazza Galanti chiama “un continuo, paziente, filare parole, creare un tessuto delicato e ricco non soltanto di suoni e stili, ma di emozioni e tracce di vita che a quelle parole corrispondono con precisione sempre più accurata, di libro in libro”. Che suona bene ma non vuol dire gran che. Più interessante – e più vicina all’esperienza del lettore – un’osservazione contenuta in un’intervista a Muratori apparsa su Nazione Indiana, in cui si attribuisce alla scrittrice “un approccio stilistico che dimostra quello che Wu Ming 1 ha chiamato nel suo memorandum sul New Italian Epic «sovversione nascosta di linguaggio e stile»”. Di sicuro, infatti, la scrittura di Muratori ci sorprende. Non siamo abituati a una scrittura che “taglia e ricuce il mondo per noi in modo diverso, per rivelare qualcosa che non avevamo visto prima”. Nel primo capitolo di Animali domestici il procedimento “taglia e ricuci” è spinto a livelli estremi, la relazione base della logica occidentale, il legame causa-effetto, è esautorato senza che si capisca da cosa sia sostituito, i dialoghi hanno più di una sfumatura da Cantatrice calva, nulla è concatenato, tutto è frammentato, senza che la frammentazione sia vissuta come problema o anche solo tematizzata: è così e basta. Ma su questo torneremo.
Una nota, in margine, sullo “scrivere strano”: mi è capitato recentemente di leggere racconti di giovani autori (ma soprattutto autrici) e di imbattermi in questa lingua di difficile digestione (cioè: bisogna rileggere le frasi quattro o cinque volte per farsi almeno una vaga idea, così, un’ipotesi di quello che potrebbero voler dire). L’intenzione, chiaramente, è di tagliare e ricucire il mondo a partire dall’approccio percettivo; c’è in questi giovani scrittori (scrittrici) l’ambizione di riformare le categorie a priori dell’intelletto; però un po’ così come viene, come gli detta il cuore. Purtroppo l’impressione più forte che lasciano nel lettore (in me) è che la loro conoscenza dell’italiano sia una conoscenza di massima, una conoscenza di superficie e per di più a chiazze, insomma che questi sperimentino allegramente con uno strumento che controllano molto poco. Confesso che questa giovanile incoscienza mi fa un po’ paura.
Questo genere di osservazioni non riguarda Letizia Muratori: lei l’italiano lo sa, e anche molto bene. Qui il problema, se problema c’è, è di altro genere; ma di questo parleremo dopo.
Nel secondo capitolo, Mai più vi rivedrò, la narratrice ci racconta la storia di Chiara, amica d’infanzia, figlia di Edi Sereni, bambina dislessica quando ancora la dislessia era una parola sconosciuta nelle scuole italiane, bocciata in prima elementare, ribocciata in prima superiore benché di famiglia colta e più che benestante, e insomma avviata a una marginalizzazione che in lei prende la forma dell’amore per gli animali, soprattutto i cani. I cani, più dello Xanax, le garantiscono una sopravvivenza, seppure al margine. Ne ha raccolti una quarantina, in un casale dove vive col marito falegname. Un blitz assurdo e feroce della guardia di finanza glieli porta via per “inadeguatezza della struttura”. Questo capitolo, soprattutto la scena del sequestro, è la parte migliore del libro. È molto bello. L’ingiustizia perpetrata ai danni dei cani e il dolore profondissimo di Chiara, narrati con grande sobrietà di linguaggio attraverso la voce della stessa Chiara, sono molto più veri e ci toccano molto di più del suicidio del giovane Michele, alla fine del romanzo, e del relativo dolore di amici e parenti che la narratrice racconta in proprio sforzandosi, senza riuscirci del tutto, di evitare il patetico e dunque il falso. (E non è che non ci riesce perché non è brava; non ci riesce perché nel mondo com’è oggi il dolore di un animale o per un animale è reale e rappresentabile; il dolore di un essere umano o per un essere umano, per motivi che sarebbe interessante indagare, lo è molto meno – con la parziale eccezione dei bambini piccoli, che infatti hanno ancora qualcosa del cucciolo. La non-bravura starebbe quindi, caso mai, nel non rendersi conto che si sta tentando qualcosa di infattibile o di molto difficilmente fattibile).
Il quarto capitolo (del terzo ci occuperemo fra poco), La storia è finita punto e basta, parla della servante eritrea Almas (come definirla altrimenti? Domestica? Sì, ma vive nel grande appartamento dei padroni ai Parioli, situazioni che al nord hanno cessato di esistere già dai primissimi anni del dopoguerra e di cui io al massimo sentivo parlare da mia madre). Il quarto capitolo, o quarto racconto, è la storia di Almas che, francamente, non c’entra quasi nulla col resto.
Se il secondo capitolo, la storia di Chiara, era stato anche il capitolo dedicato all’infanzia, il terzo, Mission with Mountbatten, il più lungo e il più autobiografico (nel senso della storia personale della narratrice ma anche, in un senso che preciseremo, dell’autrice), ci presenta l’adolescenza della protagonista vissuta in simbiosi con la nuova amica Simonetta, italiana nobilitata da un’ascendenza inglese; segue il matrimonio un pelo surreale con Luca, prime incursioni di Edi Sereni, separazione, convivenze per sommi capi, fino alla ricaduta nei “trattamenti”, poi alla rottura con Sereni; lì il cerchio si chiude e ci ritroviamo dove eravamo rimasti alla fine del primo capitolo.
Mission with Mountbatten, che originariamente è il titolo del libro di memorie del nonno di Simonetta, viene preso in prestito “per il più ambizioso dei cortometraggi che io e Simonetta contavamo di girare da ragazze. […] Non c’era alcuna relazione fra titolo e plot, ma Simonetta lo aveva accettato subito, perché la mancanza di nessi espliciti è sempre stata una caratteristica della nostra vena creativa”. Direi che è una caratteristica dell’autrice, oltre che della narratrice, e che le è rimasta nel tempo; ma di questo abbiamo già detto. Il punto che mi preme sottolineare è un altro. Animali domestici si presenta, nella finzione, come l’autobiografia di una protagonista che si chiama Letizia; Muratori stessa dice, nell’intervista a Nazione Indiana, che questo romanzo è particolarmente nutrito di materia autobiografica. Ora, di romanzi i cui protagonisti si chiamano Walter Siti, come tutti, di questi tempi sono piene le librerie. Il punto è quello che ci si fa con la finta o vera o parzialmente vera ma in ogni caso romanzata autobiografia. Il punto è se questa autobiografia romanzata o romanzo nutrito di autobiografia, pur non essendo l’autobiografia di un personaggio di per sé esemplare o interessante (e Muratori, per il momento almeno, non lo è) riesce a porsi a un livello che riguarda tutti; che sarebbe il livello letterario. Ecco, a mio avviso questa “magia”, in particolare nel terzo capitolo che è il capitolo centrale, a Muratori non riesce. O raramente le riesce. Per lo più ci troviamo di fronte a fatti privati che tali rimangono. “Sentii qualcosa che si muoveva sul soppalco, e per tutto quel tempo era rimasto in silenzio. Dopo pochi attimi comparve il ragazzo più bello che avessi mai visto, tutto appuntito, con una testa ben messa sul collo. In mezzo a quei bronzi sembrava un fauno con gli occhi d’oro. «Ciao, sono il fratello di Andrea» mi tese la mano, non era una mano forte, sicura, e mi fece tenerezza”. Vorrei dire a Letizia (dico “Letizia” come direi “Marcel”, per non confonderla con Muratori/Proust) che mi fa molto piacere che abbia incontrato il ragazzo più bello che avesse mai visto e che sia amore a prima vista, come mi stupisce un po’ che soltanto dopo tre anni e passa di matrimonio, e per puro caso, scopra che il fauno con gli occhi d’oro è da sempre drogato marcio. Però a me – e parlo per me – che abbia incontrato il ragazzo più bello che avesse mai visto o che l’oro degli occhi fosse in fondo una sfumatura di eroina non è che interessi poi molto; anzi a dir la verità non me ne frega proprio niente. E che Muratori ci appiccichi in fondo due righe di morale: “Avevo sposato me stessa grazie a quel marito attento che aveva sposato se stesso grazie a quella moglie distratta” non cambia la sostanza delle cose.
Il marito drogato che passa come una meteora occupa un po’ più di spazio della signora del quinto piano che le giovani Letizia e Simonetta quasi travolgono uscendo dall’ascensore. Della signora del quinto piano, che non ricomparirà mai più nel romanzo, apprendiamo diverse cose: che si chiama Edith, che è ungherese, che non esce mai di casa se non per dar da mangiare ai gatti del cortile ecc. Di persone reali, che hanno la loro giustificazione nel mondo reale ma non necessariamente nel romanzo, è pieno il terzo capitolo e un po’ tutto il libro. C’è una tendenza a sostituire il raccontato con il vissuto, a raccattare quello che è capitato perché è capitato, senza scegliere, senza ordinare, senza “montare”. Quel “nulla è concatenato, tutto è frammentato” che dicevamo dello stile corrisponde all’idea che Muratori si fa della mimesi: una cronaca in cui si registrano eventi senza interrogarsi sulla loro rilevanza o eventuale collegamento; precisamente come essi avvengono nella realtà: senza che si chiedano, gli eventi stessi, se sono o no rilevanti, se sono o no concatenati.
C’è una compiacenza, da parte dell’autrice, nei confronti del materiale biografico: una tendenza ad accoglierlo a prescindere da una funzione; come se quello che è stato, nel momento in cui viene inglobato in un romanzo, acquisisse una giustificazione estetica o uno status letterario. Ma non è automatico; molto – tutto – dipende dallo sguardo, dal tono; dal peso che lo sguardo è in grado di attribuirgli e di attribuire all’insieme. In questo senso lo sguardo di Muratori è uno sguardo leggero. Il che naturalmente può anche essere visto come un pregio. Io lo vedo – anzi, mi colpisce – come un difetto: come un arrivarci troppo corti nel salto dall’esistenza alla scrittura. Può darsi che sia una questione di età, di generazione: che io non riesca ad apprezzare perché sono troppo lontana dal fenomeno. Ad esempio si dice, e posso essere d’accordo, che Muratori è particolarmente brava nella rappresentazione dell’infanzia; l’infanzia è la fase degli effetti senza cause o dalle cause favolose. Il rischio però, quando le piccole donne crescono, è di ritrovarsi davanti delle bimbe minchia fuori taglia massima che non rivestono per me alcun interesse. Anche se è probabile che al momento costituiscano un fenomeno rilevante; come costituisce un fenomeno rilevante prendere le cose come vengono, perché vengono, una di seguito all’altra, senza star tanto lì a rompersi la testa.
Io non mi ci ritrovo. Questione d’età.
Ciao.
Non so, tutte le volte che tento di affacciarmi alla narrativa italiana “dei giorni nostri”, mi sembra di avere a che fare con gente melanconica: autobiografie dove succede poco o nulla, personaggi che ricordano i traumi infantili in modo chic, una scrittura da traduzione pavesiana.
Dalla tua recensione, scusami se sbaglio, sembra la stessa cosa:
“Nel secondo capitolo, Mai più vi rivedrò, la narratrice ci racconta la storia di Chiara, amica d’infanzia, figlia di Edi Sereni, bambina dislessica quando ancora la dislessia era una parola sconosciuta nelle scuole italiane, bocciata in prima elementare”
Non ho letto il libro, ma da questa anticipazione si fatica a non volerlo lasciare sullo scaffale.
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Ciao.
Per quel poco che ho letto io, più della malinconia (che c’è, è vero) mi colpisce l’inconsistenza. Sembra che tutto sia irrilevante. In un certo senso, qui da noi, lo sta diventando; prova ne è che stiamo scivolando nel baratro politico con una specie di rassegnato fatalismo. E’ possibile in questa situazione una letteratura in un qualche senso “energica”? E’ quello che mi chiedo…
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