TEMPO DI FALENE

Leonardo Caboni_2010-Le_Falene-Personale
Leonardo Caboni, Le falene

Non ci sono più al giorno d’oggi, o almeno non si vedono in queste zone pedecollinari dell’Appennino Mordianese, le grosse falene scure che comparivano d’estate sul far delle tenebre, vogando con le grandi ali vellutate e silenziose, orripilanti; ricordo che una volta mi accorsi di essere rinchiusa con un esemplare da quindici centimetri buoni – misura ad ali ripiegate – in una stanza molto piccola; la porta si trovava all’altra estremità. Per fortuna era una stanza alta e la cosa orribile era posata tranquilla appena sotto l’angolo del soffitto. Col sangue freddo che ci stupisce davanti a un pericolo mortale guadagnai la porta. Credo che se la falena mi avesse sfiorato mi sarebbe venuto un attacco epilettico, o sarei caduta in uno stato di morte apparente come quel personaggio di Landolfi. Mi chiedo se c’è un nome per questa repulsione, lancinante fino all’urlo irreprimibile e al collasso psico-viscerale. Esiste, scopro, il termine “mottefobia”, parola di rara bruttezza che indica la paura delle falene. Immagino che venga dal tedesco “Motte”, che sarebbero quelle farfalline beigeoline, con le ali sfrangiatine, che perdono quella polverina, che se le schiacci sembrano fatte più che altro di polvere. Come “moth” in inglese. Ma le autentiche falene terrorizzanti, i Nachtfalter, sono altra cosa.

Comunque, sparite quelle e sparite anche le candele che attirano poeticamente le grandi e le piccole, rimangono invece o rimanevano, nei ristoranti all’aperto, le gabbiette elettriche che meno poeticamente le friggono, loro e altri insetti volanti, con uno sfrigolio sinistro e prolungato. Ricordiamo degnamente la falena e la candela con una poesia del 1814:

W. v. Goethe, BEATO DESIDERIO

Non ditelo a nessuno, solo ai saggi,

Perché la folla subito schernisce,

La cosa viva io lodo che si strugge

E la morte nel fuoco concupisce.

Nelle notti che amore ti ristora,

In cui tu, generato, generasti,

Un fiato estraneo ti sorprende e sfiora,

Mentre la cera splende senza fasti.

A lungo tu non puoi più rimanere

Avvolto nelle tenebre dell’ombra,

Nuova brama ti prende di volare

In alto, su, e più alta unione adombra.

L’infinita distanza non ti è nulla,

Ecco che giungi a volo affascinato,

Finché avido di luce tu, farfalla,

Nella luce sei da ultimo bruciato.

E fino a che tu questo non avrai,

La fiamma che ti dice: Muori e sii!

Sarai solo un viandante pien di guai

Sopra l’oscura terra e i suoi addii.

Selige Sehnsucht
Sagt es niemand, nur den Weisen,
Weil die Menge gleich verhöhnet:
Das Lebend’ge will ich preisen,
Das nach Flammentod sich sehnet.

In der Liebesnächte Kühlung,
Die dich zeugte, wo du zeugtest,
Überfällt dich fremde Fühlung,
Wenn die stille Kerze leuchtet.

Nicht mehr bleibest du umfangen
In der Finsternis Beschattung,
Und dich reißet neu Verlangen
Auf zu höherer Begattung.

Keine Ferne macht dich schwierig,
Kommst geflogen und gebannt,
Und zuletzt, des Lichts begierig,
Bist du Schmetterling verbrannt.

Und so lang du das nicht hast,
Dieses: Stirb und werde!
Bist du nur ein trüber Gast
Auf der dunklen Erde.

schmetterlinge_hi

È, anche questa, una celeberrima poesia tratta dal primo libro del Divan, il Libro del Cantore. La traduzione è mia. A proposito della traduzione, a trasportare un Vierheber tedesco, cioè un verso di quattro accenti, in un endecasillabo italiano, può capitare di trovarsi più sillabe a disposizione che parole da infilarci. A volte non basta nemmeno la zeppa metrica, che già non è una bella cosa in sé. Nell’ultimo verso ho fatto quello che un traduttore non dovrebbe mai fare: ho inserito una zeppa di contenuto. Voglio dire: “i suoi addii” nel testo di Goethe non ci sono proprio.

Quando ho letto per la prima volta questa poesia, verso i ventiquattro, venticinque anni, mi sono sentita trasportata da entusiasmo; mi è sembrata grandiosa. E lo è, naturalmente; ma a rileggerla adesso che è passato tanto tempo mi fa un’impressione non so, insincera. Va be’ che per Goethe la sincerità non è una categoria, lui non è mica un romantico. Quello che voglio dire è che la famosa esortazione Muori e sii! (Stirb und werde!) non so bene come sia da intendere. Ricorda da vicino, è chiaro, l’evangelico “Se il chicco di grano non muore”. Ma lì, mi dispiace, non siamo più nella poesia; e nemmeno nella letteratura in generale.

Rispondi

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un'icona per effettuare l'accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto Twitter

Stai commentando usando il tuo account Twitter. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s...

%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: